venerdì 14 giugno 2013

INCONTRI / SERGIO RUBINI

C’era un ragazzino in un paese della Daunia. La guerra era finita da poco. La fame no. Per uno strano caso venne invitato a pranzo in casa di un notabile del paese. Per alcuni giorni la sua vita cambiò. Il testo di Matteo Salvatore, uno dei grandi cantori del Sud, viene reso in modo straordinario da Sergio Rubini. Dopo il fiume di note e di parole generato dagli Spread – il gruppo di bancari trasformatisi in attori-musicisti-cantanti per lo spettacolo “My fair bank -, l’impatto con Rubini è ammaliante. Il racconto e la voce narrante conducono in un’altra dimensione I bancari musicisti-attori-cantanti, quasi dei “saltimbanca”. Il palco è la loro nuvola, la professionalità è altissima, non solo un’alternativa al lavoro, un altro modo di guardare alla vita. Senza le ossessioni del budget, dei conti, dei soldi, dei mercati, delle stock option e dei bond. Musica e parole anche per prendere in giro e prendersi in giro. Il vento dell’ironia soffia leggero.
La brezza della serata al sontuoso Auditorium della Scuola Allievi della Guardia di Finanza al San Paolo ha anche il nobile alito della beneficenza. L’incasso infatti è destinato ad un progetto promosso dal Reparto Oncologia dell’ospedale Di Venere, a Carbonara.
E infatti, per Rubini “My fair bank”, quello di venerdì 31 maggio, “è” l’evento: <Perché c’è un obiettivo nobile – dice l’attore e regista grumese -. Loro fanno un altro lavoro e ogni tanto fanno convergere, tutti insieme, la loro passione per una forma d’arte molto particolare, che comporta stare sul palcoscenico, offrire e offrirsi al pubblico dal vivo>.
Sergio Rubini è venuto apposta a Bari. Sarebbe ripartito l’indomani mattina. Una nobile causa vale la faticaccia.
Rubini, il film a cui è più affezionato? Scommetto La stazione.
<Sono affezionato a tutti i miei film. La stazione è il mio primo film. Però sono affezionato anche all’ultimo>.
 E La terra? Lì era cattivo, viscido, infido. Proprio brutto.
<In effetti era un ruolo particolarmente sgradevole. Ma il cinema è il bene e il male mescolato e frullato>.
Fellini?
<Un grandissimo artista amatoriale. Amatoriale proprio come i grandi amici che si sono offerti questa stasera>.
È diventato ambasciatore dell’olio extravergine di Puglia.
<È un progetto che non so a che punto sia. Ma è un grande onore. E’ un po’ come essere ambasciatore della pizza a Napoli>.
La pugliesità è fondamentale nella sua vita personale e di artista.
<Uno che fa il mio mestiere non può non attingere alla propria storia personale, alle proprie origini>.
La terra, un po’ per tornare al film citato prima, esprime al massimo proprio la pugliesità, le radici. A proposito. Grumo Appula?
<Grumo una volta era un paese tranquillo. Lo era quando io sono andato via>. Adesso è un paese che a volte è un po’ più violento. Non fa piacere scoprire che un po’ tutto il Sud, la provincia rischia di diventare periferia della grande città, che sia Napoli o Bari o Reggio Calabria. Con tutto quello che comporta, soprattutto in negativo. Comunque, resto molto affezionato al mio paese. Lì ho la famiglia, gli amici>.
Per diventare grandi bisogna andare a Hollywood come Muccino?
<Nooo. Per diventare grandi bisogna restare piccoli. Saper restare piccoli>.
Lo stato di salute del cinema italiano secondo Sergio Rubini?
<È in perenne crisi. Tuttavia diceva Holderlin che dove c’è crisi c’è salvezza. Se c’è crisi, vuol dire che alla base c’è garanzia che qualcosa che si muove, che vuole crescere. E quindi la situazione in quelche modo ci deve rassicurare. Nessuna iundusitra può restare in situazione di stallo, sennò è la fine. È un mondo che deve muoversi. La crisi è in qualche modo testimonianza che c’è perenne movimento>.
La Puglia Film Commission. Una mano al cinema pugliese. E alla Puglia.
<Assolutamente sì. È stata una grande intuizione quando Nichi(Vendola, ndr) ha pensato di farla diventare veramente e pienamente operativa. Vengono tantissime compagnie a girare qui. In fondo, è una maniera, come dire, per divulgare questa terra bellissima. I nostri scenari possono diventare un business. Perché, non dimentichiamo che la cultura è business. Ce ne rendiamo conto tutti. Solo Tremonti non l’aveva capito>.

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