domenica 23 giugno 2013

QUEL POMERIGGIO AL DELLA VITTORIA

Non so se la data è proprio quella. Ma mi piace pensare di sì. Era il 12 dicembre 1965. Avevo meno di sei  anni. Piangevo praticamente ogni giorno: non volevo andare dalla signora Barruffi, quella sorta di asilo privato in via Trento. La Barruffi (ho sempre salutato - buon giorno, signora -, anche tantissimi anni dopo, fino alla  morte, quella distinta lady così poco paesana, così borghese, con quel tuppo di capelli grigi compattati da un intrico di ferretti) mi ricordava che passavo le ore intere a guardare l'orologio, fissando il lento ma inesorabile movimento delle lancette, con un unico movimento impercettibile del naso, per far salire gli occhiali che ero appena stato costretto a mettere. Ma questa è un'altra storia. La vigilia di Santa Lucia, dunque, era una domenica. E mio padre mi portò allo stadio. Che emozione. Il Bari era in Serie C, una delle tante trasferte all'inferno dei galletti.
C'erano calciatori che, di lì a poco, per me sarebbero diventati un piccolo mito, da Galletti a Cicogna. Rivedendo oggi quei nomi, mi rendo conto che molti di quei calciatori li ho intervistati: da Angelo Carrano a Emanuele Qudarello a Pasquale Loseto. Il tecnico era Filippo Calabrese, carbonarese bonario e tagliente, pronto di lingua, ironico e intelligente. Mi raccontò che una volta, quando giocava, arrivò in treno nella città dove avrebbe giocato. Era centravanti piccolo ma dal gran fiuto. Il presidente, che andò ad accoglierlo con tanto di comitato d'onore, quando lo vide scendere dal vagone, con una malcelata delusione gli chiese: tutto qui? No presidente, rispose strascicando, il resto è nella valigia. Segnò trentadue gol.
Al Della Vittoria, sempre con mio padre, ci sarei andato per anni. Mi sarei esaltato per i gol di Mujesan, per le geometrie di Fara. Al Della Vittoria sarei tornato molti anni dopo, quando il capo dello Sport della Gazzetta mi affidò il Bisceglie, in C2 (vi giocava Raffaele Rubino), che, squalificato il Ventura, disputò un intero campionato allo stadio di viale di Maratona. E poi avrei scritto le nuove gesta del rinato Liberty, prima con Ninì Flora e Gigi Frisini, poi con Nicola Canonico. Lo stadio dei miei sogni pallonari di ragazzino era diventato l'Arena delle mie cronache per la Gazzetta.
Ricordo i piccioni. Ce n'erano centinaia. Il guano lo potevi misurare a tonnellate. Volteggiavano abili, come padroni di casa disturbati dalla prodezze pedatorie, nidificando nel ventre dello stadio. Vincenzo "Pagotù" Stolfa mi regalava ogni volta un borghetti. E ogni volta era un tuffo nel mare dolce della nostalgia. Aspettavo due settimane, ma poi il premio era straordinario: la ottocentocinquenta, il parcheggio, il cappellino per il sole, l'attesa, la pubblicità di "baimorris" e "orologi antoni". E l'uscita in presa alta di Spalazzi, il cross di Fara, lo stacco di testa e l'incornata vincente di Luce Mujesan. Formidabili quegli anni.

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